Affrontiamo il tema del nazismo e della shoah partendo dalla parte più dolorosa, partiamo infatti dalle testimonianze dirette di chi quel periodo l’ha vissuto e ce lo ha trasmesso, più o meno volontariamente, e lo possiamo fare andando a presentare alcuni attori/spettatori diretti del grande orrore della Seconda Guerra Mondiale, che inconsapevolmente parlano da punti di vista diversi e armonizzanti. Mi perdonerete, ma riesco ancora male a maneggiare questo argomento senza cadere nel patetico e allora direi di andare a parlare di libri che ho assaggiato personalmente e che spero di non digerire mai.
Il “Diario” di Anna Frank è senza dubbio uno dei testi più conosciuti sullo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti e, opera letteraria sia pur involontaria di altissimo livello e di grande importanza, è per sua natura uno dei testi con cui tutti gli studenti delle scuole medie si trovano a confrontare e Anna riesce con le sue memorie a parlare al cuore delle generazioni più giovani. Riesce a mettere a nudo e trasmettere la sua paura, il suo bisogno di normalità, la sua grande voglia di vivere appieno la propria vita in una Amsterdam irriconoscibile, se la pensiamo così come è oggi; ci riesce a passare i suoi sogni e i suoi sentimenti di adolescente, i suoi dubbi e i suoi giganteschi perché?, la sua prima cotta nel rifugio e al contempo tutto l’orrore di un destino che si fa tutti i giorni più vicino, quella Storia che non ha pietà e che priva il mondo delle anime più belle per farne delle stelle a monito contro la follia e l’ottusità più bieca. Un diario fondamentale, scaricabile in pdf qui, così come lo è quello dell’opera che segue, di Etty Hillesum, forse meno conosciuto, ma non per questo meno fondamentale.
Piccola Etty. Candida Etty. Tu che, travolta da un orrore senza limiti, ti sei posta nel mezzo tra la follia e l’odio armata di solo amore incondizionato. Sì, lo posso dire: io ti amo, Etty. Ti amo perché prendi ogni giorno che Dio mette su questa terra come un dono inestimabile, perché percorri chilometri faticosi della tua Amsterdam e sopporti col sorriso tutti i sacrifici che sono stati imposti a te e al tuo popolo, perché tutti ascolti e tutti conforti. Ti amo perché mi hai permesso di leggere la tua vita più intima, a me che sto vivendo settantacinque anni dopo la tua morte e che apro le tue faticose eppure necessarie memorie con la consapevolezza di starti in qualche modo stuprando, perché a me il permesso di toccare la tua intimità non lo hai certo mai dato. Ti amo perché in te c’è solo vita “Bella e degna di essere vissuta.” Sempre. Un altro libro involontario eppure necessario, un titolo che ho scoperto per caso, ma che adesso che l’ho potuto leggere lo spargerei a piene mani a tutto il mondo: sto parlando di Etty Hillesum e del suo “Diario”, un libro bellissimo, una testimonianza di una vita che ne raccoglie migliaia e che, con le “Lettere”, offre uno squarcio di vita vissuta dal 1941 al 1943, otto quadernetti scritti fitti fitti dove l’autrice, allora ventisettenne, descrive l’amore e l’infatuazione, riversa le sue paure, dialogando continuamente dapprima con se stessa e poi direttamente con Dio, che a sua detta è comunque la parte più profonda e genuina di lei.
È doloroso notare qui che né Anna né Etty sono sopravvissute allo sterminio, essendo morte nei campi di concentramento, ma lo stesso destino non è fortunatamente toccato a tutti e provvidenza ha voluto che tra quelle miserevoli anime che si sono salvate qualcuna avesse anche l’urgenza e la capacità di metter mano alla penna per esorcizzare l’orrore e la follia.
Tra questi c’è sicuramente il nostro Primo Levi, che ha sintetizzato in “Se questo è un uomo”, anche questo provvidenzialmente tra i libri da leggere di qualunque scuola, quella macchina da guerra che è un campo di concentramento, una macchina con un unico obiettivo: distruggere l’essere umano, colpevole di essere ebreo, reo di pensarla diversamente dal regime, responsabile di qualunque colpa anche solo immaginabile, prima tra tutte quella di macchiare la perfetta razza ariana. Ecco quindi le canzoni di regime che dagli altoparlanti martellano e scandiscono, novelle campane tecnologiche, le ore di lavoro, ecco poi lavori assurdi, impieghi assolutamente inutili, il cui unico scopo è quello di debilitare fisicamente e psicologicamente esseri umani ridotti a scheletri, ed ecco ancora il cibo, scarso e di nessun pregio, razionato al lumicino e naturalmente del tutto insufficiente al fabbisogno di chiunque, e poi ecco le umiliazioni, le percosse, gli insulti, fino alle docce allo Zyklon B e ai forni crematori. Questo è successo, signore e signori! Lo so che lo sapete, ma non lo si sa mai abbastanza e se non ve lo ricordate, lo potete andare a rileggere qui.
Eliezer Wiesel aveva 14 anni quando la Storia bussò alle porte di casa sua e di tutti gli ebrei che abitavano nella stessa cittadina ungherese, Sighet: si ricorda tutto, già, certo, difficile dimenticare, e lo racconta ne “La notte”, il diario-resoconto della fine della vita, dell’umanità, di Dio stesso. Ci racconta che iniziò lentamente, di come Moshé li avesse avvertiti tutti, di fuggire, di prepararsi a lasciare tutto, lui che era miracolosamente fuggito a una prima retata diretta ai campi di concentramento, e di come lo avessero bellamente ignorato. Poi, un giorno, i tedeschi erano venuti davvero, e tutti gli ebrei avevano dovuto lasciare tutto e, caricati come animali, era iniziato l’inferno: da lì erano stati visitati, spogliati di ogni dignità, e trasferiti in diverse destinazioni. Quelli che erano sopravvissuti, naturalmente. Elie è sempre insieme al padre e arriva ad Auschwitz, “Arbeit macht frei”, si danno forza l’un l’altro, si danno l’un l’altro un motivo per continuare a respirare là dove una morte veloce dà l’unica speranza di un’esistenza migliore, insieme lottano e insieme soffrono, vedono la vita disfarsi e l’orrore crescere ogni giorno. Una voce parla dell’arrivo dei russi da Oriente: gli ebrei devono essere trasferiti, per loro inizia la marcia nella neve, tra crampi di dolore, fame e sete. Arrivano a Buchenwald: erano 5.000, sono 12. Poco dopo, l’arrivo degli americani.
Altro superstite da Auschwitz è Imre Kertesz, anche lui ungherese che in “Essere senza destino” è riuscito a esorcizzare tutto il male che ha vissuto per raccontarlo al mondo, dove eppure ancora esistono sacche di negazionismo che rifiutano di affrontare queste atrocità e le rigettano del tutto, come fossero subdole macchinazioni sioniste e andando così a rivangare l’orrore e il dolore. Forse è per questo che dobbiamo ricordare ciò che è successo e non relegarlo banalmente tra le cose brutte e sporche: che sia da monito sì, ma che non oscuri ciò che l’uomo è in grado di fare all’uomo, che sia lì a ricordare anche i nativi americani per esempio, una cui stima dello sterminio va dai 45-65 milioni, mentre in sud America non si contano nemmeno, o anche gli oppositori sterminati da Stalin e Mao, o anche le lotte tribali in Africa, ma è meglio che la faccia finita. Ma torniamo al libro che stavamo presentando: Gyurka non ha ancora compiuto quindici anni, quando una sera deve salutare il padre costretto a partire per l’Arbeitsdienst, il lavoro obbligatorio. Alla domanda perché agli ebrei venga riservato un simile trattamento, il ragazzo rifiuta di condividere la risposta religiosa, “questo è il volere di Dio”. Perché dovrebbe esserci un senso in tutto questo? Poco dopo Gyurka viene arruolato al lavoro forzato presso la Shell, e da lì, un giorno, senza spiegazione, viene costretto a partire per la Germania. La voglia di crescere, di vedere e imparare, l’impulso vitale di questo ragazzo sono così marcati e prorompenti, che la sua “ratio” trova sempre una buona ragione perché le cose avvengano proprio in quel modo e non in un altro. Dei molti partiti, lui riuscirà a tornare a casa, in un mondo poco propenso a riaccoglierlo, ed a riflettere su quanto è successo.
Fresco di stampa è infine quest’ultima testimonianza: di Fatina Sed, “Biografia di una vita in più”. Questa è la storia di Fatina Sed, nata a Roma l’8 marzo 1931, arrestata a Roma a tredici anni, deportata nel campo di sterminio di Auschwitz e sopravvissuta alla Shoah. Una storia scritta a penna su un quaderno trovato dopo cinquant’anni da sua nipote Fabiana Di Segni, che ha ricostruito tramite il racconto la parte mancante della vita di sua nonna e la sofferenza sua, delle zie e della madre. Un dolore che si è tramandato nelle generazioni successive e che ci mostra, con estrema verità e crudezza, Auschwitz come un trauma personale, famigliare ma anche e soprattutto collettivo: uno degli strappi più feroci alla nostra idea di umanità. Una testimonianza che ci aiuta a tener viva la memoria per renderla ancora attuale e mai vicina alla semplificazione o all’oblio. So che non ce n’è bisogno, ma mi sembra tuttavia opportuno riportare un piccolo estratto del libro, che forse ci può aiutare ad avvicinarci a questa vita costretta alla non-vita: «Un giorno la kapò ci fece mettere in fila per fare l’appello e una delle prigioniere si mosse. La soldatessa iniziò a frustrare ferocemente su tutta la fila – era fuori di sé, sembrava una belva feroce -, nei nostri sguardi arrivò il terrore e sui nostri volti il dolore. Eravamo scheletriche e senza capelli, si vedevano solo gli occhi che erano spalancati dalla paura. La soldatessa frustò tutti indistintamente, e mentre tentavamo di piegarci per proteggerci e evitare il colpo, la punta della frusta mi colpì in un occhio. Il dolore era atroce, in pochi minuti mi venne un occhio grande e nero. … Mi sembrò che tutte queste baracche e questi campi avessero un’unica funzione finale: farci morire».
Andando a terminare questo faticosissimo articolo, che comunque rappresenta solo la prima delle due parti di un’opera più grande che vorrebbe racchiudere in un sito internet una parte di tutto quello che sulla Shoah si è scritto, presentiamo il saggio di Hannah Arendt “La banalità del male”, il resoconto del processo fatto ad Heichmann in Israele. Ecco, qui si apre un altro mondo, che ritroveremo anche parlando de “Le benevole” nella seconda parte, un mondo rappresentato dalla Germania tutta e dal suo popolo, uno stato dove solo ai pochi grandi criminali di guerra furono comminate pene esemplari, da tutti riconosciute comunque ridicole rispetto a quanto fatto, uno stato sepolto dalla vergogna che non è in grado di sopportare tutto il peso delle azioni inflitte alle proprie vittime e che vuole solo scrollarsi di dosso questa pesante eredità. Uno Stato composto di persone comuni, mediocri sotto ogni aspetto, esattamente quale era Adolf Eichmann, un uomo semplice, la cui personalità rasentava la mediocrità. Durante il regime nazista come durante tutta la sua vita, egli visse per inerzia; guidato dal padre, dalle amicizie, dalla situazione in cui viveva. Era pericolosamente privo di iniziativa, spessore culturale e morale; quest’ultimo non andava oltre i condizionamenti che gli erano stati dati dalla società. Ebbene, quest’uomo, questo grigio burocrate, fu un abile organizzatore di trasferimenti di ebrei che portavano tutti alla “Soluzione finale”, o alle “Evacuazioni” o anche ai “Trasferimenti all’Est”. Noi siamo abituati a chiamarli con un altro nome: campi di concentramento o campi di sterminio.
Proprio in chiusura, vi lascio questo link, che contiene tutti i titoli di cui abbiamo parlato qui, quelli di cui parliamo nel prossimo articolo e moltissimi altri, per avere sott’occhio tutta una biblioteca dedicata alla Shoah e ribadire l’importanza di ricordare.